Nell’ottobre scorso il segretario Generale dell’International Maritime Organization, Efthimios Mitropulos, aveva calcolato i costi della pirateria “fra i sette e i dodici miliardi di dollari all’anno a livello globale”. E quando si parla di costi, si pensa subito ai riscatti che gli armatori devono invariabilmente pagare per ottenere la liberazione dei marittimi tenuti in ostaggio (al momento pare siano circa seicento, provenienti un po’ da tutto il mondo), o alle merci trafugate sui mercantili.
Lo studio. Hanno cercato di districarsi in questa giungla di cifre Anna Bowden e Shikha Basnet, due ricercatori della fondazione non governativa One Earth Future, che nel loro dossier “The Economic Cost of Somali Piracy 2011” hanno individuato ben nove settori delle attività connesse alla navigazione in prossimità del Corno d’Africa sui quali incide direttamente il fenomeno della pirateria. Alcuni insospettabili: cosa c’entrano i moderni corsari – ci si potrebbe infatti chiedere – con i 2,7 miliardi di dollari in più spesi per il carburante dagli armatori? Questa è la voce che pesa più di tutte sui bilanci delle compagnie che impiegano mercantili lungo le rotte a rischio. Il fatto è che la velocità è il modo più sicuro per eludere gli attacchi (nello studio si evidenzia come nessun attacco abbia avuto successo se la nave viaggiava dai 18 nodi in su). Naturalmente, più veloci si procede, più si consuma. E poi va anche aggiunto il maggior utilizzo di carburante necessario per le "deviazioni" più o meno lunghe dalle rotte tradizionali.
Militari e bodyguard. In ordine di incidenza, il secondo capitolo di spesa è quello dell’impegno militare internazionale, che costa complessivamente ai 30 Governi presenti nell’area con loro unità 1,27 miliardi. La missione navale “Atlanta” dell’Ue è stata da poco prorogata fino al dicembre 2014 e questo comporterà un ulteriore necessità di fondi. L’anno scorso i Governi hanno anche speso16 milioni per processare i pirati arrestati e 21 per sostenere organizzazioni a vario titolo impegnate nella lotta al fenomeno. Queste voci sono le uniche che non comportano esborsi da parte degli armatori, che invece spendono di tasca propria 1,11 miliardi per imbarcare guardie armate – private e non – sui mercantili. In Italia è stata da pochi mesi autorizzato l’imbarco di uomini della Marina per assicurare la difesa delle navi. Si tratta di team specializzati e ben equipaggiati, composti da sei unità ciascuno, che costano agli armatori tremila euro al giorno.
Le assicurazioni. Un totale di 635 milioni di dollari sono stati invece pagati per i premi assicurativi, saliti alle stelle per chi opera nelle “war risk areas”, cioè in zona di guerra, come viene ormai considerata dai Lloyds buona parte dell’oceano Indiano occidentale. Rapimento e riscatto (kindap and ransom) sono le principali forme assicurative da stipulare su questi mari. Il War Risk Premium può essere ridotto solo imbarcando guardie armate o equipaggiando la nave con adeguati sistemi di sicurezza, come una “cittadella” dove rifugiarsi in caso di attacco, o filo spinato lungo le parti basse e impianti d’allarme di ultima generazione.
Altri 580 milioni sono andati in fumo per tornare all’antico. Come definire altrimenti la scelta di molte rinfusiere e le petroliere che hanno seguito vie alternative, più lunghe ma meno pericolose, come la circumnavigazione dell’Africa? Anche perché per attraversare le aree a rischio bisogna prima trovare i marittimi che accettino di lavorare con il costante pericolo di cadere in mano ai pirati. La miglior medicina contro la paura è un aumento dei compensi: 195 milioni di euro in più, per la precisione, stima il rapporto di One Earth Future.
Costi economici e umani. Compreso il capitolo più doloroso, quello dei sequestri (1.118 i marittimi presi in ostaggio solo nel 2011, 24 dei quali assassinati), che ha comportato una spesa complessiva per il pagamento dei riscatti di 160 milioni, il costo totale delle attività di contrasto alla pirateria ammonta a circa 6,9 miliardi di dollari. Questa cifra cresce poi vertiginosamente se si considerano i “danni collaterali”, difficilmente quantificabili ma evidenti, come la riduzione dei flussi turistici che hanno subito grandi paesi dell’area, Kenya e India in testa.